Tarquinio Prisco, l’etrusco che fu il vero fondatore di Roma e il suo primo re (la scienza oramai ha sfatato la favola di Romolo e Remo), non poteva sapere che quella città sul Palatino, presso il Tevere, sarebbe stata la rovina del suo popolo. Gli Etruschi avevano già fondato un vasto impero sul suolo italico. Un impero forte, industrioso, che commerciava con tutto il mondo conosciuto. Roma però gli fu fatale. Sarebbe cresciuta fino a schiacciarli e a cancellarli addirittura dalla Storia.
Era il 575 a. C. quando Roma nacque, e non il 753 come stabilirono Livio e Varrone che non erano certo degli storici nel senso inteso dai moderni. Livio infatti aveva raccolto leggende e invenzioni, convinto di rendere “più sublimi i primordi dell’Urbe con una mescolanza di eventi umani e divini”. Perfino la celebre lupa di bronzo, che i Romani consideravano sacra a Marte, dio della guerra, era opera di un artista etrusco vissuto nel V secolo a.C., mentre i due gemelli che la lupa allatta, Romolo e Remo, vennero aggiunti più tardi. In duecento anni i Romani assorbirono dalla cultura etrusca tutto ciò di cui avevano bisogno, e anche quando gli Etruschi furono oramai sottomessi, i vincitori continuarono a chiedere l’aiuto dei loro esperti per realizzare costruzioni e progetti d’ingegneria, ben consapevoli di non essere all’altezza di cavarsela da soli.
Appena dieci anni prima che scoppiassero le ostilità aperte tra la potenza di Roma e quella di Cartagine, i Romani si erano assicurati il dominio della Toscana meridionale costiera. Dopo essersi impadroniti della potente città etrusca di Vulci, proseguirono verso Nord e – con la loro mentalità fondamentalmente militare individuarono un promontorio che aveva il doppio vantaggio di fornire un eccellente punto di vedetta sul mare e la possibilità di un approdo e di un porto alla sua base. Consentiva anche di sorvegliare l’accesso alla Laguna di Levante di Orbetello, allora non separata completamente dal mare e forse utilizzata dagli Etruschi come porto o rifugio di navi. Fu così che nel 273 a.C. venne fondata la colonia di Cosa, con funzioni probabilmente di avamposto militare e di centro di penetrazione economica.
Cosa comincia la sua vita dotandosi di una robusta cinta di mura, lunga un chilometro e ancora evidente oggi. Seguono costruzioni pubbliche che gli archeologi moderni definiscono “di sapore etrusco”, e poi abitazioni rudimentali fatte di legno, mattoni e paglia su una base di pietra. E’ soltanto dopo un centinaio e più di anni che l’edilizia pubblica assume una genuina connotazione romana, con un Foro e una Basilica, mentre le abitazioni private conservano il precedente aspetto, molto modesto e in fin dei conti egualitario. Sempre in questo periodo si mette mano alla costruzione del Porto Cosano, le cui strutture si vedono affiorare ancora, purtroppo semidistrutte non solo dal tempo ma anche dai turisti che fanno il “barbecue” sugli antichi mattoni, lungo la spiaggia della cosiddetta “Tagliata”.
La Tagliata viene ancora chiamata etrusca perché l’idea di tagliare la roccia migliorando così il drenaggio della laguna, e del porto di Cosa (esisteva già un passaggio con un antro naturale, detto “Spacco della Regina”) fu certamente opera di geniali e abilissimi ingegneri idraulici etruschi.
Roma intanto si stava sbarazzando di Cartagine e profondissime trasformazioni sociali si succedevano nella penisola italica: i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Di queste trasformazioni si nota il riflesso nell’urbanistica di Cosa, perché a un certo punto le case incominciarono a differenziarsi nettamente, sia come tipo di costruzione sia come grandezza, segno indubbio di una classe agiata in espansione. Il porto intanto diventava sempre più attivo, soprattutto come punto d’imbarco della merce di esportazione più pregiata della zona, ossia il vino, destinata ai vari paesi del Mediterraneo. Tanto attivo che una famiglia di proprietari terrieri, i Sesti, decise che era più conveniente istallare una propria fabbrica di anfore (le damigiane di allora) che acquistarle al di fuori dell’azienda. Alla piccola proprietà terriera di contadini liberi, subentrava una concentrazione di terre nelle mani di pochi proprietari, oramai d’origine direttamente romana, e la produzione era assicurata dal lavoro degli schiavi. Anche questa struttura trova un preciso riscontro nell’urbanizzazione: spariscono le abitazioni sparse nella campagna, ognuna al centro del suo appezzamento, e vengono sostituite da una tipica struttura agricola, la “villa”, che noi dovremmo tradurre con “fattoria”.
Non solo era l’abitazione del ricco proprietario, ma anche il centro dell’azienda, con depositi, magazzini, recinti per il bestiame d’allevamento e da cortile, mentre le abitazioni degli schiavi lavoratori restavano ben separate e avevano un aspetto militaresco, come un insieme di casermette. Un bell’esempio, ancora in corso di scavo, la Villa di Settefinestre, a metà strada fra Capalbio e Orbetello, sull’Aurelia. La vita di Cosa andò avanti tranquilla e senza scosse fino agli ultimi anni dell’epoca classica, quando, nel 70 circa a.C., venne assalita e distrutta probabilmente da un’incursione di pirati. Col passare degli anni e dopo qualche sparuto tentativo di ripresa, Cosa fu di nuovo spazzata via dalle invasioni barbariche e non resuscitò più nonostante la fondazione di un modesto villaggio medioevale chiamato Ansedonia.
Ansedonia, nonostante la suggestiva assonanza etrusca con nomi delle antiche città fondate dagli Etruschi Populonia e Vetulonia , è dunque un nome medioevale. E avrà un futuro, perché nel nostro tempo, con l’esplosione dell’industria delle vacanze, sarà un luogo rinomato che però corre il rischio d’essere sommerso e definitivamente depredato della sua bellezza dagli eccessi della cementificazione sulle coste: un’invasione la cui protervia è combattuta a fatica, e non sempre vittoriosamente, dalle Istituzioni.